Canti, rituali, abitudini e vitto dei pellegrini.


Canti pellegrini

 

«E più avanti / E più in alto / Dio aiutaci!». Queste sono le parole di uno dei canti del pellegrino medioevale che ritmavano il cammino. Da sempre, le azioni ripetitive (il lavoro dei campi e la marcia, ad esempio) producono, con la loro cadenza, canti e cantilene, per alleviare la fatica e la monotonia. Il pellegrino medievale cantava per ritmare il passo, ma anche per esprimere la sua spiritualità. Un canto dei pellegrini al momento di entrare in Roma era “Ad limina apostolorum”. La prima strofa era un saluto alla «nobile Roma», «arrossata dal vermiglio sangue dei martiri / e bianca del candore dei gigli delle vergini», a cui seguivano due strofe dedicate a Pietro e Paolo,a cui si chiedeva di intercedere presso Dio. Non importa se la melodia era la stessa di un canto da taverna, nel quale un innamorato esalta le grazie della propria amata, mettendole sotto la protezione divina («protegga le tue curve / colui che fece il cielo e le stelle, / e creò i mari e la terra»), ed esprime il desiderio della donna, poiché la «fuga» lo faceva bramire «come un cervo quando scappa il piccolo».
Nel XIV secolo, anche i pellegrini di Monserrat (Spagna) esprimeranno la loro devozione alla Madonna, madre di tutti: «ricchi e poveri, grandi e piccoli. / Ognuno si mette in cammino / per vedere con i propri occhi / e poi fa ritorno ricolmo di grazia».
Ma il canto poteva anche servire per ottenere altri benefici. In due canti del XVI secolo, le povere pellegrine «di fangho brodolate» chiedevano «Caritate, amore Dei / […] / che da Roma siam tornate / dalli sancti giubilei». Altre, che invece a Roma erano dirette allo scopo di lucrare il «perdon sancto e divino», imploravano la «gente cortese» di fare «bene» nei loro confronti, in quanto «del ben che vui haremo, / ce farem tra via le spese», un modo per pagarsi il viaggio.

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Antichi rituali

Il pellegrino medioevale era solito praticare il refrigerium e l’incubatio. Sono pratiche antiche di origine pagana: il banchetto funebre presso la tomba del santo e il dormire li’. «Per Pietro e Paolo Adgy[torius] ha fatto il refrigerium promesso», incide su una pietra lungo la via Appia un pellegrino dei primi secoli. Coppe da vino, con l’effigie di santi sul fondo, furono fabbricate a Roma durante tutto il medioevo. Anche l’incubatio è una pratica attestata da Gregorio di Tours (VI secolo) e da vite di santi posteriori. Spesso si dimentica il senso religioso delle due pratiche che si trasformano in gozzoviglia e baldoria. Abelardo condanna queste degenerazioni nella sua Teologia cristiana, «il diavolo ritiene ancora insufficiente quello che viene fatto all’esterno dei luoghi sacri e introduce la turpitudine nella stessa Chiesa». A nulla valgono i divieti di papa Damaso nella seconda metà del IV secolo, che proibiva i banchetti funebri ed istituiva veglie disciplinate dal clero. Anche queste erano occasione per baldorie di vario genere, alimentate anche dall’euforia di aver raggiunto il luogo sacro tanto desiderato. Del resto, chi doveva gestire masse di pellegrini con uno scarso, se non inesistente, senso della separazione tra materiale e spirituale, era meno intransigente di papa Damaso: il capitolo di Conques (Francia) era meno severo nei confronti dei «canti sconnessi», che considerava espressione di una pietà popolare.

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Consuetudini particolari

Altre abitudini erano presenti in pellegrinaggi specifici. I pellegrini a Compostela facevano la corsa a chi per primo raggiungeva la sommità del «Monte de Gozo» da cui si vedeva la cattedrale. Chi per primo l’avvistava era proclamato «re del pellegrinaggio». Un uso analogo è attestato presso i pellegrini romei, in questo caso l’altura era il Monte Mario.
Altro uso dei pellegrini jacobei era, come ricorda il V libro del codex calixtinus, quello di piantare una croce sul passo di Cize pregando genuflessi rivolti a occidente (uso risalente a Carlo Magno) oppure quello di trasportare da Triacastela a Santa Maria de Castañeda una pietra per la fabbrica della cattedrale del santo (a Castañeda c’erano forni per la calce). Un altro rituale jacobeo: «per amore dell’Apostolo» (così dice Aymeric Picaud) era lavarsi in un fiume a due miglia da Compostela, «mentulas suas», le parti intime ed ogni sporcizia del corpo. Abluzione purificatoria, comune ad altre società ed epoche, come pure all’arrivo al Finis Terrae, dove al lavaggio purificatorio seguiva l’indossare indumenti nuovi, simbolo di rinnovamento vitale.

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A tavola coi pellegrini

Guglielmo da Vercelli, in cammino per Santiago de Compostela tra l’XI e il XII secolo, si nutriva, «come aveva stabilito fin dal primo giorno del suo pellegrinaggio», soltanto di pane ed acqua. Una scelta personale, per devozione, come dormire «sulla nuda terra» e portare un cilicio (Vita di S. Guglielmo da Vercelli). Di fatto il pane ed il vino sono, come spesso si trova nei documenti, gli alimenti del pellegrino. Il libro V del Codex Calixtinus ricorda «pane di frumento», «pane di segala» e i vini, senza nome preciso, delle zone attraversate. Si menzionano anche «carne», «pesce», «sidro» ed altro, anche se non si puo’ parlare di prescrizioni alimentari precise per il pellegrinaggio, visto che si attraversano zone diverse per produzioni e usi alimentari.
Il pane fa parte della narrazione di miracoli jacobei (una donna, che negò il pane ad un pellegrino, trovò pietre sotto la cenere in cui stava cuocendo il suo pane) perché a partire dall’anno Mille era in corso una rivoluzione alimentare: da un regime tipico dei regni barbarici basato sul consumo di carne, si passa ad uno con il pane alimento base, grazie alla ripresa dell’agricoltura.
Anche il consumo di vino é particolarmente diffuso nel Medioevo: Abelardo non proibiva di «bere a sazietà» neppure alle monache di Eloisa (Lettere). Del resto l’ubriachezza non era un peccato grave, ma veniale : ne “I miracoli di Nostra Signora” (opera di Gonzalo de Berceo della prima metà del XIII secolo) si narra di un monaco che aveva alzato troppo il gomito e che, nonostante fosse «scivolato nel vizio del bere», meritò ugualmente di essere aiutato dalla Madonna, che lo salvò dagli attacchi del demonio e «lo prese per mano, lo condusse al suo letto, / lo coprì con il mantello e con il copriletto, / gli aggiustò sotto il capo il guanciale diritto», affinché il poveretto, con una bella dormita, smaltisse la sbornia.
Bere vino era una prevenzione igienica; l’acqua poteva essere inquinata e provocare danni; il vino, anche scadente, conteneva un minimo di alcol che lo rendeva asettico.
Pane e vino erano quasi sempre offerti al pellegrino presso gli ospitali e le foresterie delle abbazie. Non era un trattamento standard: in alcuni si riceveva solo il pane, al resto si doveva provvedere da soli. Nel Roman de Renard il pasto nell’ospitale era a base di uova, formaggio, pane e carne salata. Boccaccio, nel Decamerone (novella X della VI giornata: Fra Cipolla), ricorda il «calderon d’Altopascio», pentolone collettivo di brodi di carne salata e sminuzzata o di verdura, conditi in vario modo, in cui si inzuppava il pane. La carne fresca da arrostire era un cibo da ricchi e, al massimo, era presente alla mensa degli abati, a cui accedevano solo i pellegrini di alto ceto sociale.
Col diffondersi dell’ospitalità a pagamento, il vitto migliora per chi dispone di denaro. La logica del profitto spinge gli albergatori ad usare furberie ed astuzie. Il sermone “Veneranda dies” (I libro del Codex Calixtinus) avverte il pellegrino: allungano il vino con acqua, usano botti dal doppio fondo (vino buono, per l’assaggio, e scadente, da servire), e pesi e misure truccate. Così Erasmo descrive nel 1522 una cena in una locanda tedesca: «un vino che dovevano bere i sofisti, tanto è leggero ed aspro […], la minestra che è gettata come un’offa allo stomaco arrabbiato, poi, con gran pompa, arrivano gli altri piatti. Di solito il primo consiste in bocconi di pane intrisi di sugo di carne o, se è giorno di magro, di passato di verdura. Quindi un altro intingolo, poi un pasticcio di carne stracotta o di pesce riscaldato; di nuovo un passato seguito da un cibo più sostanzioso, finché, quando lo stomaco è domato, portano in tavola l’arrosto e il pesce lesso, che non sarebbero da disprezzarsi: ma te ne danno poco e te li tolgono subito dinanzi. […] Poi portano ancora del vino, ma più generoso: infatti a loro piace che si beva molto, e d’altronde a riempirsi come un otre o ad assaggiarne appena, si paga lo stesso» (Colloqui, Locande).

NOTE tratte da Giorgio Massola ed altri

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