Camminante – A. Semplici


Frate Fabio è un francescano. Vive a San Zeno. In Val di Non. In una comunità con altri tre fratelli. Hanno in custodia il santuario di San Romedio, il santo che parlava agli orsi. Legge un articolo che avevo scritto sugli scrittori del camminare. Un articolo veloce, superficiale. Ma frate Fabio decide che sono un esperto dell’ ‘andare a piedi’. Mi cerca, mi trova, ci incontriamo, mi convince a partecipare al convegno che la sua comunità sta organizzando al paese. Parlare del camminare. Dico di sì, faccio le bizze, so di andare incontro a guai. Ma qualcosa leggo e studio. Frate Fabio mi chiede un intervento scritto. Protesto. Ma lo scrivo, anche se poi mi bado bene dal leggere. E un giorno di settembre del 2008, mi ritrovo con antropologi, teologi, filosofi e persino un’esegeta a parlare di camminare. Invento, improvviso, rimangono queste trenta cartelle scritte in un’estate strana e bella (almeno ne ho un bel ricordo). Forse queste parole sono l’avvio di un lungo cammino. O, come è più probabile, la sosta sarà immediata dopo la partenza. Ma sono state scritte e avrò voglia di rileggerle fra qualche anno. E magari qualcuno riuscirà a completarle.

Sono state scritte per essere ‘dette’ il 5 settembre del 2008. E’ un testo con una data.

 

Caminante……

In questa estate si è camminato molto. Da tre giorni sta camminando Riccardo Carnovalini, un camminatore storico. Lungo i sentieri dell’Occitania. 1300 chilometri, 70 giorni di percorso. Per il riconoscimento della lingua occitana come patrimonio immateriale dell’umanità. A luglio, Riccardo aveva percorso tutte le coste della Liguria per raffrontare le immagini della riviera di oggi con quelle di qualche decennio fa.

Ha camminato, fra luglio ed agosto, Alberto Conte, l’ingegnere che ha tracciato il percorso italiano della via Francigena. E’ andato da Milano a Roma in trentuno giorni. Quattro settimane e mezzo al posto delle quattro ore e mezzo dei treni ad alta velocità. Le Francigene si sono moltiplicate in questi anni: questa antica via di pellegrinaggio sembra passare ovunque nel suo cammino verso Roma.

Ha camminato Enrico Brizzi, scrittore, da Roma a Gerusalemme (e pubblica le sue parole sulla rivista Traveller). Aveva già percorso la via Francigena nel 2006 (il diario venne pubblicato dall’Espresso), e, nel 2004, dall’Argentario al monte Conero, dal Tirreno all’Adriatico.

Hanno camminato, fatemelo ricordare, migliaia e migliaia di uomini e donne che, dall’Eritrea, dalla Somalia, da paesi africani senza pace, attraversano il Sahara pur di raggiungere le sponde del Mediterraneo, banchina disperata verso il nostro mondo. Nel mese di luglio, 158 fra uomini, donne e bambini hanno perso la vita nella traversata del mare. Un censimento che mai sarà quello della realtà. E’ un andare maledetto, questo.

C’è voglia di camminare in Italia. Oppure noi abbiamo la percezione che ci sia voglia di camminare? Oltre 14mila persone sono iscritte alla newsletter della Boscaglia, un intelligente operatore turistico che, ogni anno, fa camminare in Italia mille e duecento persone.

Da due anni ha un buon successo, sulla dorsale emiliana dell’Appennino, a Berceto, il Festival del Camminare. E’ un fine settimana intenso: un po’ si cammina, un po’ si mangia, un po’ si ascolta buona musica. E poi ci sono le parole, in affollati seminari, dei protagonisti (quest’anno, fra l’altro, Erri De Luca e Mauro Corona) del nuovo palcoscenico del fenomeno-camminare.

E poi ci sono gli scrittori che hanno riscoperto ‘il camminare’. Un affrettata bibliografia di saggi, manuali, diari, narrativa e guide raccontate sull’andare a piedi ha censito ben settantotto libri in italiano. Enrico Brizzi, 34 anni, dopo il fulminante successo d’esordio con le storie di Jack Frusciante, ha trovato un nuovo approdo nei racconti delle sue camminate da mille e più chilometri per volta. Scrive di sentieri fra Toscana e Umbria, Andrea Bocconi, 58 anni, scrittore e psicoterapeuta. Scrive di camminare perfino Claudio Sabelli Fioretti, (non dice la sua età , è vecchio, più di me. Ha 64 anni. Non dice quanti giornali ha diretto, quanti ne ha chiusi. Ha diretto Cuore, ad esempio. E Sette. E anche il vecchio Abc) e pubblica un libro dalla copertina monacale e dal titolo misterioso (uno non lo comprerebbe mai, si intitola ‘A piedi, da Masetti a Vetralla. L’Italia’). Ho conosciuto Sabelli Fioretti e mai avrei pensato che potesse muovere dieci passi tutti assieme. Ma è uno spiritoso. Bisogna, dunque, scoprire che Sabelli Fioretti, da qualche tempo, vive a Masetti (che sta dalle parti di Lavarone) ed è nato a Cura di Vetralla, che si trova fra Viterbo e Tarquinia. Per la cronaca Claudio e il suo amico Giorgio Lauro hanno percorso 659 Km, 32 giorni di cammino. Ritorno in cinque ore e mezzo con un Eurostar. Almeno fino a Trento.

Allora lo confesso: non ho letto Brizzi, non ho letto Bocconi, ho letto a sprazzi Sabelli Fioretti (ma solo perché ho trovato il libro abbandonato su un tavolo in una redazione).

Ma ho con me questa foto: sono i piedi di Caterina. Una ragazza della Calabria. Della Locride. Cammina scalza verso il santuario della Madonna di Polsi. E’ il primo settembre. In questo giorno, un intero popolo si mette in cammino verso questo luogo sacro. E’ una sorta di ordalia sacra da celebrare nella notte. E’ un rito di grande emozione, cristiano e pagano allo stesso tempo. Corrado Alvaro, quasi un secolo fa, scrisse dei pellegrini che salivano a Polsi (lui era di San Luca): ‘una signora vestita bene camminava a piedi nudi, tenendo le scarpe in mano. Per voto’. Non ho chiesto a Caterina perché, anche lei, camminasse a piedi nudi. L’ho seguita in silenzio fino al santuario.

So che il camminare è una metafora potente. Ho avuto la sensazione, mentre cercavo di leggere i libri sul camminare, che molti ‘camminino per scrivere’. David Le Breton, scrittore e sociologo, mai attraversato da dubbi sulla bellezza del camminare, lo dice con franchezza: ‘Si cammina anche per scrivere, raccontare, cogliere immagini, cullarsi in dolci illusioni, accumulare ricordi e progetti’.

Da dove si comincia?

Aiuta a cominciare Rebecca Solnit. Che si pone la stessa domanda nella prima delle sue 360 e passa pagine di una superba (e molto statunitense) Storia del camminare: ‘I muscoli si tendono. Una gamba è il pilastro che sostiene il corpo eretto fra cielo e terra. L’altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra…si parte con un passo, poi un altro, e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare’. Attenzione, avverte: ‘la cosa più ovvia ed oscura del mondo è questo camminare che si smarrisce così facilmente nella religione, nella filosofia, nel paesaggio, nella politica urbana, nell’anatomia, nell’allegoria e nel crepacuore’. E ancora: ‘La storia del camminare è una storia non scritta. Segreta’.

Da dove si comincia non è così indifferente in questa storia del camminare. E’ una storia che nasce ben prima di quella degli esseri umani. Il sociologo David Le Breton cita, nella prima pagina del suo piccolo libro (Il mondo a piedi), il paletnologo francese Leory-Gouran: ‘la specie umana ha inizio con i piedi’. Oggi si osservano con un brivido di commozione le orme di G1 e G2, due ominidi, due austrolopitechi, alti meno di un metro e quaranta, che non hanno la stessa celebrità di Lucy, ma, sfuggendo alle eruzioni dei vulcani Satiman e Lemarkot, montagne di fuoco a oriente di Ngorongoro, lasciarono dietro a loro una fila di impronte che la cenere della doppia eruzione fossilizzò. Trent’anni fa sono gli occhi del geologo Paul Abell a scorgere, cadendo per terra, complice un raggio di sole, trentanove orme di piedi nudi, una striscia di passi lunga 27 metri. G1 e G2 sono la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno dopo il ritrovamento di nonna Lucy, che oltre tre milioni e mezzo di anni fa gli ominidi già camminavano sui loro due piedi. Ancora Le Breton: ‘La marcia è qualcosa di incompiuto che sfida continuamente lo squilibrio. Per non cadere, chi cammina deve subito compensare un movimento con un altro, che lo contraddice, mantenendo un ritmo regolare. Fra un passo e l’altro si sta sempre sul filo del rasoio’.

 

Ho bisogno di una guida

Io non so se sono capace di mantenere questo equilibrio. Non cammino poi molto (anche se, quando c’è da camminare, più o meno lo faccio). Mi consolo scoprendo che chi cammina (e chi cammina e scrive) ha la saggezza di cercare una guida. Perfino uno snob altezzoso e superbo come Bruce Chatwin, scrittore di culto per chi ama la letterature di viaggio, fa trapelare un’emozione sincera quando racconta la più bella delle leggende sulla creazione del mondo: ‘Nel Tempo del Sogno’ gli aborigeni ‘avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi – e col loro canto avevano fatto esistere il mondo’. Le Vie dei Canti degli aborigeni fondono il camminare con il paesaggio, la parola e la narrazione con la mitologia della creazione e della bellezza. I passi degli uomini creano la Terra. Le parole di chi va a piedi creano il sentiero che si sta percorrendo. In Africa un poeta senegalese, veterinario e diplomatico, Birago Diop, non ha dubbi: il suo cammino è guidato dagli antenati: ‘Vado per sentieri, vado oltre il mare e più lontano ancora. Camminano davanti a me gli spiriti degli avi’. Se uno dei poeti della Negritudine segue le storie della sua gente, un regista tedesco, in un piccolo libro diventato celebre fra chi scrive del camminare, ha un’altra guida. Alla fine del 1974, in un inverno gelido e cupo, Werner Herzog va a piedi da Monaco a Parigi. Ricorda che ha una giacca, una bussola, una sacca con ‘dentro lo stretto necessario’ e un paio di stivali ‘nuovi e solidi’. Lungo il suo cammino (un’avventura folle) incontra un airone grigio: ‘vola davanti a me per chilometri. Poi si posa e quando’ Herzog si avvicina ‘vola per un altro pezzo’. Ho tralasciato le ragioni per le quali Chatwin (che viaggiava, ma non è certo che camminasse), Birago Diop (come ogni africano ha molta chiarezza sulla fatica del camminare) ed Herzog (che impiegò ventuno giorni a raggiungere Parigi) si erano messi in cammino, ma tutti intuivano e sperimentavano una verità elementare: gli occhi di chi va a piedi hanno attenzione per i dettagli. La guida degli antenati non serve a chi prende un aereo. Chi va in macchina non noterebbe i balzi di un airone e di un cammino, anche del più semplice, si trattiene nelle mente ogni sasso, ogni cespuglio, ogni volo di uccello. ‘Niente può cancellare il ricordo del cammino percorso’, dice il musicista panamense (e anche ministro e avvocato) Rubèn Blades. E ancora: ‘Camminando si apprende la vita/Camminando si conoscono le cose/camminando si sanano le ferite del giorno prima’. Diop, Herzog e Chatwin scelgono, con sapienza (e gioco letterario), di avere una guida. ‘Parlare di cammino significa parlare della vita, umana e cosmica’, dice subito, nelle prime pagine di un suo libro, Sabino Chialà, monaco di Bose. E ancora: ‘Camminare è vivere, assecondare l’impulso vitale e accettare di farsene compagno’. ‘Camminare’ avverte Rebecca Solnit ‘è una metafora centrale del pensiero e della parola’. Già: Nel mezzo del cammin di nostra vita (anche lui aveva bisogno di una guida). Nelson Mandela intitola la sua autobiografia A long walk to freedom. ‘Io sono un viandante’, dice, più modestamente, il comico Antonio Albanese. ‘Viaggio è una parola nobile – scrive Erri De Luca, scrittore di grande passione – E si riferisce solo a chi lo fa a piedi’. Duccio Demetrio, come gli aborigeni australiani, è certo che il pensiero filosofico nasce quando camminando qualcuno ha cominciato a dare un nome alle cose. Da qui, il destino dell’uomo. Che è, per Demetrio, ‘il camminare inquieto alla ricerca di Dio, del mistero, dell’enigmaticità del tutto’.

 

Quando è che diventa letteratura?

In questo caso mi devo fidare. Degli storici del camminare. Dei cultori che hanno studiato i letterati romantici. Se la storia dell’umanità ha inizio con gli ominidi che, nella Rift Valley, si alzano in piedi, il camminare come ‘atto culturale’ consapevole, come ‘ingrediente della nostra esperienza estetica’ ha memoria più breve. Poco più di due secoli.

Duccio Demetrio ricorda, con chiarezza, che ‘la filosofia nacque in cammino’. I sapienti greci dialogavano camminando. Ad Atene, Aristotele discuteva passeggiando sotto i portici. Umberto Eco ha contato il tempo necessario a percorrere i lati di chiostri monacali pur di far coincidere passi e parole in un lontano medioevo. Ma il camminare diventa ‘letteratura’ con William Wordsworth, il poeta inglese, pioniere del romanticismo. Fine settecento, dunque. William e la sorella Dorothy sono i capostipiti di ‘quanti camminano per il proprio gusto’. Wordsworth è considerato ‘uno dei primi che usa le gambe come strumento filosofico’.  Il Distretto dei Laghi, a un passo dalla Scozia, diviene il paesaggio letterario di chi si azzarda ‘oltre il confine del giardino’. Wordsworth e sua sorella (ma anche Coleridge) lo fanno. A 21 anni parte per un viaggio a piedi lungo duemila miglia. Attraversa, con il compagno di studi Robert Jones, la Francia. Raggiunge e scavalca le Alpi. Questo lungo itinerario è un atto di ribellione e di disobbedienza. I due amici percorrono trenta miglia al giorno: ‘Fu una marcia a velocità militare e la terra mutò le immagini e le forme davanti a noi, come mutano le nuvole nel cielo’. Qualcuno si è messo a calcolare le miglia percorse da Wordsworth durante la sua vita di camminatore: 180mila. Il camminare per il poeta romantico, ribelle in gioventù, conservatore e vittoriano negli anni della sua maturità, è stato il segno centrale della sua vita. Per chi indaga sul camminare, Wordsworth è una sorta di ‘divinità dei sentieri’, una figura sacrale. Anche Thomas De Quincey, più giovane di quindici anni di Wordsworth, fu un camminatore, ma il suo andare a piedi, raccontano, era conseguenza della sua indigenza. De Quincey non trasporta nella sua opera il camminare. Ma, forse, è stato il primo camminatore a compiere un viaggio a piedi dormendo in una tenda. E intraprendenti artigiani hanno avuto una pionieristica idea: i romantici inglesi hanno fatto muovere i primi passi a quella che sarà l’industria (oggi fiorente) dell’equipaggiamento per il trekking. Per dieci anni, fra il 1794 e il 1804, cammina anche Samuel Coleridge. Cammina, prima di leticarci per sempre, assieme a Wordsworth. Cammina per il Galles, nel Distretto dei Laghi, va in Scozia con un carro tirato da un asino. E quando smette di camminare, vi sono critici pignoli e pedanti che avvertono come i suoi versi non siano più così sciolti. Anni più tardi, era il 1818 e aveva 23 anni, anche John Keats decise che camminare era come un rito iniziatico, una cerimonia di passaggio, un apprendistato alla poesia: ‘Mi propongo di prendere lo zaino e fare un giro a piedi nel Nord dell’Inghilterra e in Scozia, una specie di prologo alla vita che intendo fare. Cioè scrivere, studiare e vedere tutta l’Europa spendendo il meno possibile’. Conclude Keats: ‘Mi arrampicherò sulle nuvole’. Oltre un secolo dopo, l’anno scorso, sull’Appennino Emiliano, si svolse il primo Festival del Camminare. E mente pensante dei giorni di Berceto è un giovane filosofo di Parma, Italo Testa. Il piccolo libro che racchiude gli interventi di chi partecipò ai dialoghi sul camminare ruota attorno all’antropologia e all’estetica del camminare.   

 

Camminare aiuta i pensieri?

‘Non riesco a meditare se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e la testa se ne va in sincronia con i miei piedi’.  Sono parole, amate dai camminatori-filosofi (o dai filosofi-camminatori) di Jean-Jacques Rousseau. Appaiono nelle sue Confessioni. La storia del camminare come atto culturale è davvero recente. Poco più di due secoli fa: se Wordsworth (nato nel 1770) compie i primi passi letterali, Jean-Jacques Rousseau (nato quasi sessanta anni prima del poeta inglese) avvia il cammino dei filosofi che devono sentire le gambe muoversi per mettere in movimento anche i pensieri. L’esordio di Rousseau come camminatore è avvolto da un anedotto leggendario: aveva quindici anni, il giovane Jean-Jacques, tornava da una gita domenicale nelle campagne attorno a Ginevra: è in ritardo e le porte della città sono già chiuse. Il giovane Rousseau non si dispera e continua a camminare fino a oltrepassare i confini della Svizzera. Il camminare diventa la metafora dell’uomo semplice. Nello stato di natura, l’uomo ‘erra nella foresta, senza industria, senza parole, senza domicilio, senza guerra e senza associazione, senza alcun bisogno dei propri simili, come pure senza desiderio di nuocere loro’. Il ribelle Rousseau riesce a pensare solo camminando: ‘Bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi trovi il mio spirito’. Jean-Jacques Reausseau pone  ‘le basi per l’edificio ideologico dentro il quale il camminare sarebbe stato racchiuso’. E, come un destino, il filosofo morirà camminando in uno dei suoi paesaggi più amati.

Si risale fino all’antica Grecia per trovare radici di questo pensare camminando. Vengono trovati appigli, storie e tradizioni sulle sponde del Mediterraneo. Si immagina Aristotele tenere le sue lezioni mentre cammina sotto i portici. E’ la scuola peripatetica. Che, in inglese, significa, ci avverte sempre Rebecca Solnit, ‘persona che cammina abitualmente ed estensivamente’ (mentre in italiano, la parola indica una prostituta che batte la sua strada). Solnit è scettica: ‘Non possiamo affermare che Aristotele e i suoi peripatetici avessero davvero l’abitudine di passeggiare mentre parlavano di filosofia’. Ma anche lei non può negare che il legame fra il pensare e il camminare sia solido e che ‘l’architettura greca accoglie il camminare come attività sociale e colloquiale’. A differenza di quanto fanno, oggi, gli urbanisti quando progettano le periferie delle città. Pensate alle ‘rotonde’ sorte un po’ dovunque, costruite per accelerare il traffico e rendere la vita impossibile a pedoni e ciclisti. In Cina non si sono mai posti questo problema: gli occidentali che sono andati alle Olimpiadi hanno scoperto che a Pechino le automobili hanno sempre la precedenza sui passanti. Nel 1997 il sindaco di New York, Rudolph Giuliani cominciò una battaglia contro i pedoni. In Italia, sono i sindaci-sceriffi, a Verona, a Firenze, a Venezia, perfino ad Assisi, città francescana, ad ingaggiare una guerra a bassa intensità contro i vagabondi.

‘Camminare e pensare’, titola una raccolta delle sue poesie, il cantore occitano Masino Aghilante. ‘Camminare e pensare sono facoltà umane strettamente interdipendenti’, scrive il filosofo Francesco Tomatis (e aggiunge: ‘per quanto troppo spesso astrattamente separate’). In questi anni di ‘riscoperta’ filosofica del camminare, credo che non sia un caso che il presidente del Cai sia Annibale Salsa, un docente di antropologia filosofica a Genova. Lui arriva a sostenere che ‘il desiderio di andare a piedi…esplicita un bisogno di riappropriazione del senso dell’esistere e del significato delle cose in risposta al disagio psicoesistenziale e socioculturale prodotto dall’egemonia della tecnica’.

Non so come reagirebbe il severo Soren Kierkegaard se sapesse che le sue parole sono usate come slogan in un sito di fitness (a proposito: si chiama walking program). Kierkegaard non ha quasi mai lasciato Copenaghen, solitario e malinconico (i suoi biografi raccontano che non abbia mai ricevuto ospiti nella sua casa), il filosofo passeggia per le strade della capitale danese. E’ la sua salvezza, la sua ‘sorgente di ispirazione’: costruisce un sistema di valori e consigli sul camminare. Confessa, come se fosse una tecnica, il segreto del suo pensare filosofico: ‘La marcia dà libero corso a pensieri innovativi. Scatena il gesto creatore: i miei migliori pensieri sono venuti camminando’ . Kierkegaard, nei suoi diari, ha un tono quasi didattico, da padre di famiglia che suggerisce buoni consigli: ‘Soprattutto non perdere la voglia di camminare. Io camminando ogni giorno raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno. I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo e non conosco problema così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata. Stando fermi si arriva sempre più vicini a essere malati. Perciò basta continuare a camminare ed andrà tutto bene’.

Non so cosa pensare. Rebecca Solnit intitola ‘La mente a tre miglia all’ora’, il capitolo nel quale parla di Rousseau e Kierkegaard. Claudio Sabelli Fioretti calcola che la sua velocità iniziale sia di cinque chilometri all’ora. ‘Quasi’, precisa. E, quasi ogni sera, ha la forza di scrivere il suo blog. Il popolo dei camminatori pensa e scrive. Un giornalista, Diego Marani, si dimette dalla rivista Nigrizia e intraprende una bella carriera di camminatore-scrittore. Mi ha spiegato: ‘Sul cammino ci si abitua a vedere con i piedi, ad ascoltare con i piedi, fino al punto più singolare di questo apprendistato: pensare con i piedi’. Credo che la pensi così, con la solidità della metafora (Marani cammina davvero, Cassano non so), il sociologo Franco Cassano quando titola Pensare a piedi un paragrafo del suo libro Il pensiero meridiano. Cassano è certo che ‘andare a piedi è un riconquistare con il corpo e con il cervello (che sta dentro il corpo) un rapporto con i luoghi’. Il camminare e la lentezza, per Cassano, sono anche lo strumento di un nuovo meridionalismo: spezzano gli stereotipi, mettono in crisi ‘l’immagine prefabbricata dei professionisti dell’informazione’ e si ribellano ‘all’ovvietà dominante’. ‘L’andare a piedi, forse, è un modo per recuperare una dimensione della nostra cultura non inutile alla nostra identità meridionale e anche all’umanità’.

Ripeto non so cosa pensare. Forse non sono esperto di pensieri. Ma, con  qualche imbarazzo, dico che, più che Rousseau e Kierkegaard, è una scrittrice francese a rassicurarmi e a convincermi sull’intreccio fra i passi e i pensieri, fra il camminare e il cervello. Si fa chiamare Fred Vargas (ma non è il suo vero nome), di mestiere fa l’archeozoologa e scrive bellissimi libri noir. Adoro il commissario Jean-Baptiste Adamsberg, uno che preferisce procedere a zig-zag e aspettare le soluzioni invece che cercarle. E’ uno spalatore di nuvole che, quando i pensieri si aggrovigliavano ostruendo la mente, esce dal suo ufficio e va lungo la Senna a camminare e, come per incanto, un’idea persa nell’aria si materializza: ‘Adamsberg camminò fino a sera. Era l’unico modo che aveva trovato per fare una cernita dei propri pensieri. Come se, grazie al movimento del camminare i pensieri venissero sballottati quasi fossero particelle in un liquido. Finchè le più pesanti non cadevano sul fondo e le più fini rimanevano in superficie. Alla fine non ne ricavava conclusioni definitive, ma un quadro decantato delle sue idee organizzate per ordine di gravità’. Non me ne vogliano i filosofi, ma Fred Vargas mi ha chiarito alla perfezione il legame strettissimo fra i piedi e la testa.

Camminare da folli. Sindrome del camminare.

Otto anni fa, venne tradotto in italiano il libro che un epistemologo e storico della scienza canadese, Jan Hacking, dedicò ad Albert Dadas, un operaio del gas di Bordeaux che, alla fine dell’800, venne preso dall’impulso incontrollabile di camminare. Fu un singolare psichiatra, Philippe Tissiè, a interessarsi a questo giovane  (aveva attorno ai venti anni) ricoverato in ospedale perché esausto dopo un cammino impossibile. Albert era disperato e raccontò al medico che non era capace di resistere al desiderio di uscire di casa ogni mattina e di mettersi a camminare. In quei tempi percorreva almeno settanta chilometri ogni giorno. Non si fermava mai. La polizia lo arrestò per vagabondaggio. Tissiè ci scrisse sopra la sua tesi di laurea. E, in Europa (ma non negli Stati Uniti o in Inghilterra) cominciò a divampare una sorta di un epidemia deambulante. Fra il 1887 e il 1909 ‘camminatori patologici’ apparvero in Germania, in Italia, in Francia. Come non pensare a Dino Campana (a proposito: Wikipedia quando accenna alla madre di Campana, Fanny Luti, lascia cadere lì che la donna era afflitta da ‘mania deambulatoria’) e al suo vagare irrequieto per il mondo? Ne furono immuni gli Stati Uniti. O, forse, i loro psichiatri erano disattenti (ma, in realtà, seguivano con attenzione quanto arrivava dalla vecchia Europa). O, come è stato osservato, i neri che cercavano di fuggire continuamente dalle piantagioni non erano del tutto matti. E ancora: negli Stati Uniti di fine ‘800, il mito del viaggio verso il Lontano West e il far perdere le proprie tracce era un valore sociale e non un’anormalità.

Si cercò di definire la malattia di Dadas: il giovane era affetto da ‘compulsione camminatoria’? Oppure da ‘determinismo ambulatorio’. Da ‘dromomania’ o da ‘ turismo patologico’. Fu una strana epidemia: apparve e scomparve nel giro di vent’anni. Viene un sospetto: sono gli anni in cui la Thomas Cook, il primo, vero tour operator, l’inventore dei viaggi organizzati, vendeva già sette milioni di biglietti all’anno. Sono gli anni in cui poeti ‘folli’ (Rimbaud, Baudelaire, Flaubert) si mettevano in cammino senza meta e vagavano, al pari, di Dadas sulle strade del mondo. Sono gli anni in cui i controlli di polizia erano spietati: chi veniva sorpreso senza documenti era considerato un disertore o un vagabondo. E non sarà certo un caso che i fugueurs sono uomini e gente di città. Nel 1909, la psichiatria non scopre più ‘camminatori folli’, la malattia è scomparsa, è stata domata. O, forse, il camminare ha acquistato una qualche dignità. In fondo, appena più di un secolo prima, un eccentrico ministro tedesco, Carlo Moritz, veniva scacciato dai locandieri inglesi perché arrivava a piedi: ‘Chi viaggia a piedi in questo paese è visto come una specie di selvaggio…..sospettato e scansato da tutti quelli che lo incontrano’. Povero Albert Dadas: ha sbagliato secolo, oggi parteciperebbe alla Four Deserts Race o a qualche folle Marathon des Sables e meriterebbe una sua bella pagina sul supplemento culturale di Repubblica. E scriverebbe un bel libro sul suo vagabondare.

 

C’è chi cammina sul serio

C’è qualcosa che non bisogna dimenticare. Sarebbe un peccato non perdonabile riflettere sul camminare pensando soltanto al nostro mondo occidentale. Qui, da noi, in questo meraviglioso Trentino, andare a piedi, oggi, è una scelta. Una libertà. Conosco pastori dei monti Sibillini che, qualche decennio fa, transumavano a piedi verso le piane romane: nove giorni di cammino. Oggi lo fanno in camion. Ma conosco anche pastori della regione del Maramures, uno splendido angolo di Romania, che ancor oggi viaggiano a piedi con i loro greggi. E, ogni mattina, in Africa un brulichio di gambe si mette in movimento. C’è una vita da inventare, una sopravvivenza per la quale lottare, ci sono giorni migliori nei quale sperare: c’è acqua da andare a prendere ai pozzi (ed è un camminare di donne, una fatica di donne. Come il camminare per la legna), ci sono scuole da raggiungere, campi in cui andare ad arare. In Africa camminare non è libertà, né scelta. A suo modo, Bruce Chatwin, proprio lui, ci ricorda che i beduini non fanno giri escursionistici.

Ma, noi, vi prego, non dimentichiamo le coste dell’Africa, le sponde del Mediterraneo. Qui, ogni giorno, approdano migliaia di uomini in fuga. Dalle guerre, dalla povertà, da un’assenza di futuro. Andrebbe letto nelle scuole il coraggioso libro-reportage di Fabrizio Gatti che ha percorso, con l’identità di Bilal, le rotte dei migranti attraverso il Sahara. Ma è Erri De Luca a trovare parole di giustizia e dignità per gli uomini e le donne che attraversano a piedi Africa e Asia e si tolgono ‘il bagaglio dalla spalle in faccia al Mediterraneo’. Leggere i versi di De Luca è ascoltare, con un ritmo da tragedia greca (ma anche da speranza disperata), il passo di chi, in questo momento, mentre noi stiamo parlando, sta vagando per il Sahara: ‘Da qualunque distanza arriveremo, a milioni di passi/quelli che vanno a piedi non possono essere fermati/Da nostri fianchi nasce il vostro nuovo mondo/è nostra la rottura delle acque, la montata del latte/Voi siete il collo del pianeta, la testa pettinata/il naso delicato, siete cima di sabbia dell’umanità/noi siamo i piedi in marcia per raggiungervi/vi reggeremo il corpo, fresco di forze nostre/Spaleremo la neve, allisceremo i prati, batteremo i tappeti/noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo.

Vi prego, davvero, mentre parliamo del camminare, non dimentichiamo che ‘quelli che vanno a piedi non possono essere fermati’ e dai quali ‘nascerà il nostro mondo’.

 

Raccontare il camminare.

Tutti d’accordo, gli storici della letteratura del camminare (non ho idea di quanti siano): nel 1821 è uno scrittore e critico inglese, William Hazlitt a scrivere il primo saggio sul camminare (On going a journey). Prime righe senza esitazioni: ‘Una delle cose più piacevoli al mondo è fare un viaggio a piedi. Ma a me piace farlo da solo’. Hazlitt è un pioniere inconsapevole: indaga la storia della letteratura e, da Virgilio a Shakespeare, da Coleridege a Wordsworth, va a scovare connessioni fra i pensieri e il camminare. Hazlitt inaugura un genere: le sue pagine non hanno dubbi, camminare è un piacere, è bello, è gradevole.

Oltre oceano, ben altra celebrità (ancor oggi ben salda) conquista Henry Thoreau. Filosofo e scrittore, autore del Walden ovvero la vita nei boschi, nella primavera del 1851 tenne una conferenza al Concord Lyceum sul Waking. Sul Camminare. Grande Thoreau: esorta a camminare ‘come un cammello, l’unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina’. Per Thoreau, reduce dai due anni solitari nella capanna di Walden, camminare è libertà: ‘Vorrei spendere una parola in favore della natura, dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio’. L’esortazione di Thoreau è drastica: bisogna essere pronti a lasciare la famiglia, gli amici, aver pagato i debiti, fatto testamento, sistemato gli affari: solo allora l’uomo libero sarà pronto per camminare.

Appare d’accordo con Hazlitt e Thoreau, Robert Louis Stevenson: ‘In un giro a piedi si dovrebbe andare da soli perché la libertà è essenziale’. Lo scrive in Walking Tours, saggio del 1876. Stevenson non è un teorico del camminare: va a piedi per davvero, per giorni e giorni, nel cuore della Francia e il suo racconto (Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino) è picaresco e divertente.

Rebecca Solnit sbuffa: alcune pagine, dice la scrittrice statunitense, sono eccellenti, ma questi camminatori ottocenteschi non resistono alla tentazione di predicare, di insegnare, di fare facile pedagogia.  Nessuno, durante il loro cammino, si smarrisce. Nessuno corre rischi o prova sofferenze. Nessuno sembra che venga sorpreso da una pioggia incessante. Sono dotti intellettuali, spesso protestanti severi e pudici, hanno studiato a Oxford e Cambridge (Thoreau si è laureato ad Harvard). Sono dei privilegiati. ‘Sono sempre maschi’, scrive, quasi con disprezzo, Rebecca Solnit. Qualche perplessità, forse, viene avanzata, ottanta anni dopo Hazlitt, in un singolare saggio In praise of walking (1901), da Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf. E’ un buon letterato, ma soprattutto è un pioniere dell’alpinismo (fu anche presidente del Club Alpino inglese): anche lui esplora le parole attorno al camminare di molti altri scrittori per poi concludere che ‘camminare è la migliore delle panacee per le loro tendenze morbose’. Dobbiamo onore anche al Max Beerbohm che nel 1918 va controcorrente e separa i passi dal camminare dal vagare dei pensieri: per lo scrittore inglese il corpo esce all’aperto, ma la mente si rifiuta di seguirlo. Beerbohm è una voce dissonante e, come ogni parola che esce da un coro troppo unanime, merita qualche gloria.

 

Camminare per scrivere?

La letteratura del camminare, lentamente come si addice a chi va a piedi, scalza i saggisti dall’aria troppo per bene. Abbiamo già seguito le tracce di un giovane ventenne, Robert Louis Stevenson, fra le montagne delle Cèvennes. Dodici giorni di cammino fra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1879, 120 miglia, in compagnia dell’asinella Modestine. Un vero classico della letteratura del camminare. E lui, scrittore scozzese, oggi è celebre fra i camminatori francesi: 252 chilometri della Gr70 vengono dedicati alla sua impresa, siti internet (www.chemin-stevenson.org e www.gr70-stevenson.com ) attirano l’attenzione dei trekkers europei. Quest’anno, fra due settimane, comincerà una grande festa-cammino per ricordare il 130esimo anniversario del viaggio di Stevenson nel cuore montuoso della Francia.

E’ sempre l’onnisciente Rebecca Solnit a ricordarci che, in quegli stessi anni, John Muir, uno dei pionieri dell’ambientalismo, grandissimo alpinista, fondatore del Sierra Club, camminò da Indianapolis alla Florida. Il racconto di quel viaggio (A thousand mile walk to the gulf) venne pubblicato solo dopo la morte di Muir. La sua fama non è dovuta alla sua prosa, ma è figlia della creazione del parco di Yosemite, il primo degli Stati Uniti, e al mito della wilderness. .

Nel 1884 è un giornalista di 25 anni a decidere di raggiungere la redazione del suo nuovo giornale a piedi. Charles Lummis attraversa gli Stati Uniti. Da Cincinnati a Los Angeles (che allora aveva 12mila abitanti), dall’Ohio alla California in 143 giorni. Tremila e cinquecento miglia. E, capostipite degli infaticabili blogger contemporanei, Lummis, ogni settimana, mandava le cronache del suo viaggio al suo nuovo giornale. Fu una vera avventura, questa volta. E’ lontano il romanticismo inglese: il giovane giornalista porta a termine il suo viaggio nonostante si rompa un braccio e debba sopravvivere a tempeste di neve nel Nuovo Messico. Otto anni dopo, Lummis pubblicherà A tramp across the continent (Vagabondo attraverso il continente). Non fu un viaggio nell’innocenza: il giovane giornalista divenne un appassionato difensore dei nativi d’America. Lummis si sente in dovere di spiegare le ragioni di un viaggio che doveva apparire folle ai suoi amici (ma non al direttore del Los Angeles Times, almeno così sembra): ‘Non inseguivo né il tempo, né il denaro, bensì la vita…nel senso più autentico, più ampio, più dolce…la gioia esilarante di vivere…con un corpo perfetto e la mente ridestata’. Non credo che il giornalista Diego Marani, che ha fatto del camminare una parte del suo mestiere, conoscesse la storia di Lummis quando decise di raggiungere a piedi la redazione dell’Arena di Verona per un contratto di sostituzione. Partì dalla Germania dove allora viveva. Non so se ne abbia scritto

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E’ un sentiero a zig-zag questo procedere casuale fra gli scrittori del camminare. Non ci sono bussole, né mappe accurate. Si viaggia seguendo passioni momentanee, si fanno soste impreviste, si perde tempo, si esplorano i confine di grandi radure e si affrontano passaggi nei boschi dove il sole fatica a entrare.

Ora non rispetto più cronologie, né logiche. Mi muovo avanti e indietro in un secolo e passa di parole. Possono trovare posto in una antologia del camminare anche scrittori come James Joyce e Virginia Woolf? In fondo, uno dei più grandi romanzi del ‘900 (pubblicato nel 1922) racconta di un agente pubblicitario che, per un giorno, se ne va in giro per le strade di Dublino. E Virginia Woolf racconta le bellezza di una Londra invernale scoperta grazie all’alibi di dover uscire per comprare una matita. Il camminare come meccanismo del raccontare. Come sfondo di vicende minime e straordinarie.

Mi piacerebbe che un giorno apparissero i versi, probabilmente mai scritti, da Arthur Rimbaud. Il più grande dei poeti, il ragazzo che a sedici anni aveva già scritto parole immense, smise di scrivere e cominciò a vagare senza riuscire a fermarsi. Camminò per mezza Europa. Andò in Oriente e quando rientrò nel vecchio continente da Giava lo fece a bordo di una nave che si chiamava ‘Il comandante errante’. In Africa camminò sotto il sole feroce della Rift Valley e risalì decine di volte la scarpata che divideva le coste del mar Rosso dall’altopiano etiopico. Rimbaud, ‘l’uomo dalle suole di vento’, aveva scritto: ‘Sono il viandante della strada maestra che attraversa i boschi nani….’ e, con bellezza leggera, si era fatto promesse di incanti: ‘Le sere azzurre d’estate, andrò per i sentieri, reclinato nel grano, a calpestare erba fina: trasognato, ne sentirò la freschezza ai piedi….’. Davvero ha smesso di scrivere Rimbaud negli anni del suo camminare senza pace?

Robert Walser non ebbe mai un domicilio, né un lavoro fisso. Non fu un grande viaggiatore. Visse appartato, quasi sotto traccia. Ma fu un camminatore tenace e tranquillo. Dall’apparenza serena, quasi banale. Fu camminando che conobbe la sua amata Svizzera. ‘Un mattino preso dal desiderio di fare un passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, discesi in fretta le scale, diretto in strada….’: questo è l’incipit della Passeggiata (pubblicato nel 1919). Walser si libera dell’incubo del foglio bianco, lascia la sua stanzetta buia e va in cerca di una gioia che solo in strada riesce a trovare. Camminare, per lo scrittore elvetico, è un’attività ‘alta e nobile’. ‘Che chiara celeste gioia è quella del viandante’, scrive Walser. Lo scrittore non vagabonda inquieto: passeggia con occhi benigni verso il mondo. Per lui, svizzero, i boschi sono verdi, il cielo è azzurro e la strada è bianca. Come sembra lontana la disperazione senza salvezza di Rimbaud. Secondo i suoi cultori, con il suo romanticismo, Walser lega la scrittura al passeggiare e ci ‘insegna a passeggiare’. Eppure avremmo così tanto da imparare da Rimbaud.

Amo lo scrittore greco Nikos Kazantzakis per Zorba. Forse fu la faccia di Anthony Quinn a farmi amare il libro dopo quel sirtaki finale del film. Ora ho scoperto, grazie a Le Breton,  che Kazantzakis si iscrive a pieno diritto nella pattuglia degli scrittori del ‘camminare spavaldo’. Da soli (‘Non amare nessuno in particolare’), in buona salute (‘giovani’), ‘un sacco in spalla, da un capo all’altro dell’Italia, godendosi la primavera e l’estate…ritengono si debba essere imprudenti per invocare una felicità più perfetta’. Anche Nikos è citatissimo: lo fanno due giovani camminatori, Luca Di Ciaccio e Simone Massera, che non resistono alla tentazione di tenere un blog nel loro cammino estivo (luglio e agosto di quest’anno) fra Civitavecchia e San Benedetto del Tronto. Vorrei che potessero aiutarmi: da quale libro è stata tratta questa citazione di Kazantzakis? Le Breton non lo dice e le ricerche su internet sono state infruttuose.

Fu una buona idea quella di Peter Jenkins: nel 1979 stava camminando dall’oceano Atlantico al Pacifico, da New York alle coste dell’Oregon e decise di fermarsi, con il suo cane Cooper, alla redazione di National Geographic a Washington. Fu così che Jenkins, aveva 25 anni allora, divenne camminatore e scrittore di professione. Fra ‘i più popolari e celebri esploratori’ dei nostri anni, dice, con vera modestia, il suo sito. Jenkins durante il suo lungo viaggio trova il tempo di sposare una seminarista battista, si prende tutto il tempo che vuole, diventa il simbolo di fine ‘900 di un paese che ancora guarda ai pionieri del Far west. I suoi libri (Walk across America è un sequel: Jenkins ne scrive due) sono stati best sellers per vent’anni. E, naturalmente dopo un simile successo, Jenkins dilata le sue geografie. Va in Cina ed in Alaska: cammina per scrivere o scrive perché cammina? Da oltre vent’anni, camminare è il suo business. Io penso, con qualche nostalgia, a Forrest Gump, ad Easy Rider (ma Denis Hopper, Peter Fonda e Jack Nicholson non andavano a piedi) e a Jack Kerouac.

Ho l’età giusta per averlo letto quasi quarant’anni fa. E poi non averlo più riletto. L’ho cercato sui miei scaffali. Devo averlo prestato, non c’è più. I frati francescani hanno chiamato questo nostro incontro On the road. Non so se è intenzionale o meno, ma l’orma di uno scarpone non va poi così d’accordo con il titolo. Se ben ricordo, Sal Paradise, protagonista del romanzo sovrano della beat generation, vagabonda con l’amico e complice Dean Moriarty da un lato all’altro degli Stati Uniti, ma la traversata non avviene a piedi, bensì in automobile, simbolo trionfante della fine degli anni ’50. In quegli anni, i fratelli della beat generation andavano in India: non camminavano, era un Ford Transit il simbolo di quel viaggio. Sarà il poeta californiano Gary Snyder, profeta dell’ecologia profonda, a strappare Jack Kerouac dai mezzi meccanici e a condurlo in montagna. Ne nacque un libro, forse migliore di On the road, che ho anche ritrovato nella mia libreria: I vagabondi del Dharma. Perdonatemi: leggo ancora da Wikipedia: secondo gli anonimi redattori di questa enciclopedia virtuale, fu con questo libro che Kerouac ‘mobilitò migliaia di giovani di tutto il mondo portandoli a viaggiare con i loro zaini sulle spalle’. Snyder oggi ha quasi ottanta anni e i suoi seguaci italiani continuano a definirsi ‘selvatici’. Snyder sosteneva che solo la ‘selvaticità è lo stato di completa consapevolezza’. Oggi il camminatore Luigi Lazzarini (i suoi interventi sono sul sito della Boscaglia, un operatore turistico che organizza solo trekking) lascia una copia di un libro di Snyder in ‘una spirale di pietre’ lungo i percorsi del Parikarama, camminata solitaria (ma anche di gruppo) e spirituale che, ad ogni inizio di settembre, percorre l’aspro anello del monte Velino: ‘cosicchè i viandanti alle mie spalle – dice Lazzarini – potessero fermarsi a leggere qualcosa e riflettere’.

Nel 1977 è una donna australiana (finalmente una donna), Robyn Davidson, a mettersi in cammino. Con un cane e tre cammelli. Percorrerà 1700 miglia nel deserto di Gibson. Si racconta che Robyn non avesse nessuna intenzione di scrivere quando decise di raggiungere la costa occidentale dell’Australia partendo da Alice Springs. Ma, evento poco credibile, fu National Geographic a chiederle di raccontare la sua impresa. In realtà un fotografo della rivista, Rick Smolan, seguì la sua impresa (un viaggio di nove mesi. Ne nacque anche un amore: camminare aiuta anche in questo, sul Cammino di Santiago si formano e si rompono innumerevoli coppie) e, all’articolo, seguì, inevitabile, il libro: Tracks (Orme, pubblicato in Italia da Feltrinelli) e Robyn divenne un’esperta di nomadismo. Sono certo che Robyn sia sincera quando scrivere: ‘Ero felice: non credo che esista altra parola’. Credo che la pensi così anche Carla Perrotti, la viaggiatrice dei deserti (sei deserti attraversati a piedi) quando spiega che questo andare è la strada (faticosa) per raggiungere ‘la pace con sé stessi’ (ma anche Carla, oramai, si muove solo con sponsor, poco interessati, presumo, all’equilibrio dell’anima).

Quasi trent’anni fa, Il mio primo articolo su una rivista nazionale fu una recensione di In Patagonia di Bruce Chatwin. Capirete perché ho una predilezione per questo scrittore, snob ed esteta. Eppure non dovrebbe starmi molto simpatico: molti anno dopo quel primo, entusiastico articolo ho ripercorso il suo cammino alla Fine del Mondo e ho incontrato alcune delle persone che lo avevano conosciuto. Nessuno ne conservava un buon ricordo: era un inglese insopportabile, dandy e vanaglorioso. Ma Bruce, sconosciuto proprio in Patagonia (e quando incontra Luis Sepulveda, vero cantore di quelle terre, i due uomini non si capiscono, né si piacciono. Si annusano come cani e vorrebbero ignorarsi, ma non possono farlo), è il guru amato da una generazione di lettori del viaggiare. Anche da me, anche se oramai è certo che la prosa perfetta di In Patagonia fu anche merito di una straordinaria editor che sfrondò con le forbici da potatura quanto aveva scritto Bruce.  Chatwin è la bussola che perfino Sabino Chialà, dotto monaco di Bose, utilizza per indagare l’universo del viaggiare e del camminare:  Chialà, studioso di ebraico e di siriaco, viaggia con sapienza fra scritture sacre e classici della filosofia, ma la prima e l’ultima citazione del suo bel libro, Parole in cammino, sono parole di Bruce. E In Patagonia è il libro di culto che ha decretato il trionfo contemporaneo della letteratura di viaggio. Chatwin crede che il camminare sia il migliore dei rimedi: ‘è un’attività poetica che può guarire il mondo dei suoi mali’. Chi cammina, a prestar fede a Bruce, ritrova sé stesso, soddisfa il suo bisogno di fuga. Per Chatwin, viaggiatore quasi compulsivo, camminare è la maniera più appagante di viaggiare. E, in fondo, merito grandissimo, è lui a regalare conoscenza mondiale alla bellissima e dolcissima leggenda della Via dei Canti degli aborigeni.

Avrei voglia di fermarmi qui. Di non andare oltre Chatwin. Scrive davvero bene questo snob inglese morto di Aids a poco più di quarant’anni e detestato dai personaggi che in qualche modo ha reso celebri. Ma ci sono gli scrittori-pellegrini da ricordare, i camminatori di professione, i nuovi e non più nuovi affabulatori dell’andare a piedi. Negli anni ’80, fu la rivista Airone a far uscire il camminare dai crinali delle montagne. Fu un piccolo fenomeno editoriale e sociale: una domenica di dicembre migliaia di persone arrivarono nell’alta Garfagnana con una copia di Airone in mano. La rivista aveva appena pubblicato (e progettato) un itinerario su una splendida dorsale appenninica (il racconto di questa piccola impresa fu scritto da Nicoletta Salvatori. Che oggi dirige TuttoTurismo e continua a dedicare pagine al camminare). Riccardo Carnovalini gestiva, allora, un rifugio del Cai sulle Apuane e sognava di raggiungere quelle montagne di cui intravedeva gli orizzonti. Assieme a sua moglie cominciò a camminare e, per anni, non si è fermato: le Alpi, gli Appennini, il corso del fiume Arno, tutte le coste italiane. E’ stato, probabilmente, il primo camminatore di professione italiano. Pubblicava i suoi articoli su Airone. Ha pubblicato libri su libri. Poi, per anni, si è fermato in una fattoria del Piemonte e ha allevato capre. Per poi calzare di nuovo le scarpe da camminatore: in queste ore sta camminando, lo abbiamo già visto, sui sentieri dell’Occitania. E’ un ‘camminatore politico’, Carnovalini. Lungo le coste liguri denuncia gli scempi edilizi di una delle più belle riviere mediterranee. In Occitania vuole battersi per il riconoscimento di una lingua. Dice: ‘Passare una giornata camminando è un fatto naturale. E’ innaturale passare una giornata chiuso in una stanza’. Ma quanti fra chi sta leggendo queste parole può permetterselo? Come concilia Carnovalini lo scrivere e il camminare?

Ho solo i dati del 2004, anno jacobeo: quattro anni fa furono 156.944 i pellegrini ‘ufficiali’ che hanno raggiunto a piedi Santiago de Compostela. Un numero immenso. Quasi ottomila erano italiani. Cinquantamila avevano fra i 36 e i 60 anni (59 più di ottanta). Ma bisogna saper leggere questi dati: ebbene, i pellegrini che si sono accontentati di partire dai confini della Galizia (percorso ‘valido’ per ottenere la Compostela) sono stati oltre centomila, il 60% del numero totale. Hanno comminato per meno di sette giorni. ‘Neanche il tempo per entrare nello spirito –  commenta, con severità, Flavio Vandoni, sul sito pellegrinando.it – si sono arricchiti i taxi che trasportavano gli zaini e i commercianti che vendevano una bottiglia di acqua a 5 euro’. Da Saint Jean Pied de Port, nastro di partenza del Cammino Francese, sono partiti 21.544 pellegrini, ma a Santiago ne sono arrivati solo 9.343. Il Governo della Galizia sta cercando, da tempo, di attrarre un ‘turismo di massa’ sul tratto regionale del Cammino. E, sul Cammino, fecero la loro apparizione mediatizzata Ronaldinho e la figlia del presidente Bush.

Ma, nonostante questi dati contradditori, il terzo canale di RadioRai, complice la passione da camminatore di Sergio Valzania, direttore dei programmi radiofonici di Radio Tre, ha dedicato ben due cicli di trasmissione al Cammino di Santiago (e altri alla Francigena e a cammini verso Oriente). Andare a Santiago vuol dire organizzarsi oltre un mese di ferie, più di trenta giorni di tempo libero. Vuol dire sacrificare tutte le tue vacanze alla fatica, alle tendiniti, alle vesciche, alle unghie che si spezzano, alle strade bianche senza fine delle mesetas. Vuol dire, per chi affronta il Cammino francese, percorrere 800 chilometri. Ogni giorno 35 chilometri. Perché? Nicola Artuso, altro aspirante scrittore del camminare, dichiara che cercava ‘il passo perfetto’. Flavio Vandoni, sconsolato, sembra allargare le braccia leggendo i dati del 2004: per la maggioranza dei camminatori del pellegrinaggio, il Cammino è ‘consumismo’ o ‘periodi di ferie a basso prezzo’. Eppure, nel 2000, anno giubilare, il 94% dei pellegrini spiegava, a chi li interrogava, di aver percorso il pellegrinaggio più celebre di Europa per ragioni religiose e culturali. Risposta troppo semplice. Mi convince di più una viandante che, al termine del Cammino, mi spiegò che ‘per fare una cosa del genere hai bisogno di tempo. Sei in un momento di transizione, di cambiamento. Camminare fino a Santiago ti aiuta a fare quel grande passo che, se rimani fermo, non riesci a compiere’.  E non aveva nemmeno letto lo scrittore olandese Cees Nooteboom, autore di Verso Santiago: ‘Cammini. E poiché cammini, sei una persona diversa’. Bel personaggio questo Nooteboom: dovrebbe avere quasi ottanta anni, fu considerato un precursore della beat generation per un romanzo degli anni ’50 in cui narrava di avventure in autostop attraverso l’Europa. Agli inizi degli anni ’80, Cees va a Santiagio, ma, a quanto dicono, compie il viaggio in automobile. Se questo è vero, per scrivere del camminare, non si va necessariamente a piedi. I maligni sostengono che neanche Paulo Coelho abbia fatto a piedi il Cammino. Era il 1986 e Coelho non era ancora lo scrittore-star di oggi, non aveva ancora scritto L’alchimista. In italiano, il suo libro su Santiago è apparso solo nel 2001, a fama consolidata del Cammino. La città di Santiago è arrivata a dedicare una via allo scrittore che, certamente, è ancora ben in vita.

Quanto è un milione di passi?

Cerco, senza riuscirci, di evitare l’inevitabile. Mi aiuta Werner Herzog, il grande regista tedesco. A un certo punto del suo Sentieri di ghiaccio, forse il più bello fra i libri attorno a un viaggio a piedi, non ce la fa più e si chiede: ‘Perché camminare è tanto doloroso?’. E si domanda: ‘Quanto è un milione di passi?’. Duemila passi, dicono gli esperti, sono un chilometro e mezzo. Il camminare restituisce il senso alle distanze. E il cammino dei pensieri dello stesso Herzog è, com’é giusto che sia, un’altalena: dal dolore all’euforia, dalla depressione alla rabbia. A un certo punto scrive di getto: ‘Il turismo è un peccato mortale, il viaggiare a piedi è una virtù’.

Chi è andato a Santiago seleziona i suoi ricordi e parla, con una risata, perfino delle vesciche che esplodono sotto i piedi. Perché, in Occidente, si cammina o si fa esaltazione del camminare? Sergio Valzania chiede aiuto a un monaco buddista: ‘Mi ha spiegato che chi va a piedi con metodo e disciplina affrontando un lungo viaggio verso una meta precisa è un mistico’. Werner Herzog ha una ragione reale e folle: decise di andare a piedi da Monaco a Parigi, in un triste novembre, perché una sua amica, nella capitale francese, stava per morire. E, invece di affrettarsi, lui disse che Lotte ‘ sarebbe rimasta in vita se io fossi arrivato a piedi’. E così accadde. Quando ventuno giorni dopo la sua partenza, Werner entrò, sfinito, nella stanza di ospedale, la sua amica stava riprendendosi. Lui chiese di poter aprire la finestra: ‘Da qualche giorno io so volare’. Con il fiato in gola, l’irrequieto ed ‘estremista’ Werner aveva già annotato sul suo diario: ‘Ero uno che andava a piedi e perciò indifeso’.  Il giovane filosofo Italo Testa assentirebbe: ‘Il camminare è insieme pratica reale e metafora dell’esperienza dell’altro come di ciò che sospende l’ovvio, lacera i nostri abiti, rivela un tratto della nostra nudità’. Piace questa vulnerabilità agli esperti del camminare letterario: ‘Sei nudo di fronte al mondo – scrive l’antropologo David Le Breton – Chi va a piedi si sente responsabile dei propri atti e, difficilmente, può dimenticare l’umanità più elementare’. Lo ripeto: Le Breton è simpatico, ha l’aria scarmigliata, coltiva pensieri alternativi. Ma il suo libretto, Il mondo a piedi (Elogio della marcia, nel titolo originale, finito nel sottotitolo nella copertina italiana), è troppo perfetto. E’ la piccola Bibbia, facile da consultare, facile da citare che ha incantato legioni di camminatori. Il suo incipit è replicato infinite volte: ‘Camminare significa aprirsi al mondo. L’atto del camminare riporta l’uomo alla coscienza felice della propria esistenza, immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la piena partecipazione di tutti i sensi’. E ancora: ‘Camminare rappresenta uno sberleffo alla modernità. E’ qualcosa che intralcia il ritmo sfrenato della nostra vita’. Non so se Le Breton conosca lo scrittore italiano Pino Cacucci che scrive: ‘Stiamo accelerando talmente tanto che è inevitabile un’implosione. Riscopriremo così il bisogno di camminare, di viaggiare a piedi’. Tiziano Terzani, amatissimo collezionista di storie, aveva già suggerito: ‘Mettiti in viaggio. I piedi del viandante diventano fiori’.

Sto evitando i nuovi scrittori del camminare (chiedo scusa fra l’altro a Eraldo Affinati, Gianni Celati e Vitaliano Trevisan. Più seriamente, in queste pagine, non appare Hermann Hesse. E nemmeno i libri che hanno esplorato i labirinti del walk-about australiano, Ne chiedo scusa), ma alle parole di Andrea Bocconi e di Claudio Sabelli-Fioretti devo ricorrere. Perché mi appaiono parole ‘astute’, ma immediate. Di pancia. Gli amici non chiedono ad Andrea perché abbia deciso di andarsene a piedi fra Toscana e Umbria per un mese. Non è un pellegrinaggio, non è un’avventura estrema, non è una passeggiata. Andrea dubita persino che possa chiamarsi trekking. E spiega, con buon senso, che camminare, semplicemente, gli ‘piace’. Rimane un piccolo dubbio: aveva già progettato di scrivere prima di partire? Claudio Sabelli Fioretti (assieme il suo compagno di viaggio, Giorgio Lauro) non ama smentirsi. Si fanno la domanda (‘Perché lo fai?), solo per il gusto di darsi una risposta preparata da tempo: ‘Perché no?’. Hanno pronta anche la risposta di riserva per il piacere di sorprendere l’interlocutore adorante: ‘A giugno non avevamo un cazzo da fare’. Ricordate i visi senza espressione dei seguaci di Forrest Gump quando, dopo aver corso avanti e indietro da una costa all’altra degli Stati Uniti dice semplicemente che è un po’ stanco e che se ne andrà a casa?

Piccola parentesi: Claudio Sabelli Fioretti infierisce e, sprezzante del pericolo, sfida il popolo dei camminatori esteti. Per camminare, lui sceglie, per la gran parte del suo viaggio, l’asfalto. Niente estetica, etica o retorica dei boschi, dei sentieri o delle mulattiere. I due camminatori scelgono la via più diretta fra Masetti e Vetralla.

I camminatori scrivono, scrivono, scrivono. Un tempo si riempivano quadernetti dalla copertina di cartone che, anni dopo, riapparivano, come aghi di nostalgia, in uno scaffale mai spolverato della libreria o in fondo a un cassetto. Poi siamo passati ai taccuini dalla copertina nera e un elastico a tenere assieme le pagine (con una tasca per conservare biglietti e frammenti di carta): emuli tutti di Bruce Chatwin. I taccuini sono diventati prima oggetto di culto e poi business. Costano fra gli 11 e i 18 euro. Infine le tecnologie informatiche e digitali. Lo zaino si appesantisce: palmare, computer portatile, videocamera, macchina fotografica, registratore, telefonino (ma non ditelo a quelli della Boscaglia: loro lo proibiscono), Ipod e caricabatteria vari. Mi chiedo come facciano: uno zaino, per un lungo itinerario, non può superare i dieci chili, a meno che non siate molto allenati e votati alla sofferenza. Claudio Sabelli Fioretti, che io conoscevo come persona pigra, consiglia: ‘Se volete scrivere, fatelo la sera stessa’. E loro, blogger del camminare, lo fanno: hanno percorso trenta chilometri, sono stremati e sporchi, ma resistono al sonno, scaricano le foto, controllano la posta (oramai, con buona pace di tutti noi, i collegamenti wi-fi sono possibili quasi ovunque) e scrivono. Scrive Enrico Brizzi dai suoi cammini (e assieme a lui cammina una piccola organizzazione, fotografo compreso: www.francigena21.it ), scrive Eric Sylvers (www.walkitaly.it), corrispondente dall’Italia dell’Herald Tribune (si occupa di economia e di tecnologia), che, lo scorso anno, ha percorso tutta la Via Francigena a piedi.

Blog collettivo (nel sito www.itineraria.eu ) per Alberto Conte, l’ingegnere che ha redatto ufficialmente il percorso della via Francigena, e i suoi compagni di viaggio, nel luglio scorso, fra Milano e Roma. Non sono grandi letterati, ma il diario dei trentuno giorni di cammino è puntuale ‘compatibilmente con la stanchezza e la disponibilità di una connessione internet’.

Costruiscono blog sconosciuti viandanti. Lo hanno fatto questa estate Luca di Ciaccio e Simone Massera: diciassette giorni, 365 chilometri (pieni di vesciche e perfino di un passaggio al pronto soccorso) per andare, sulle orme di Brizzi, dal Tirreno all’Adriatico. E’ vero, quasi sempre si limitano agli sms, ma sul loro sito danno perfino il numero del cellulare per chi voglia chiamarli. Sono simpatici e sbruffoni, Luca e Simone. E, quando vogliono fare un po’ gli intellettuali, copiano, parola per parola e senza dirlo, il retro copertina del libro di Sabelli Fioretti (che consigliano nel loro sito).

Da studiare queste nuove letterature del camminare. Si moltiplicano i blog, i forum, i siti, le communities. Domattina, 6 settembre, attorno al monte Velino, in Abruzzo cammineranno i viandanti mistici del Parikarama, del ‘camminare in cerchio’ attorno a un luogo sacro. Camminata lunghissima e meditativa (a imitazione di quanto i tibetani fanno attorno alla mole della loro montagna santa, il Kinner Kailash), dieci e più ore di un andare silenzioso, un camminare meditativo alla ricerca della Via. E il consiglio di chi ha progettato questa avventura è quello di ‘ripetere l’esperienza per dieci anni, aumentando ogni volta il proprio livello di consapevolezza verso la natura e verso noi stessi’.  La Boscaglia non vuole apparire come un semplice operatore turistico che organizza viaggi a piedi. Ma è vero: organizzano 92 itinerari a piedi (la maggior parte in Italia, ma ve ne sono alcuni in Marocco e a Cipro) e vivono di questo lavoro. Ma si propongono anche come una communities di camminatori. Hanno una filosofia (e regole) severa: niente cellulari, niente ipod, molto silenzio e, non sono sicuro di aver capito bene, astinenza dal vino. Non sono ‘inclusivi’, ma ‘esclusivi’: cercano di selezionare i camminatori-clienti. Animano blog (www.camminarelento.it ), intervistano camminatori e scrittori, hanno creato una nuova letteratura e sociologia del camminare, accendono dibattiti, invitano alla meditazione. Luca Giannotti, fondatore della Boscaglia e suo infaticabile profeta, non ha molti dubbi e ha già registrato il marchio deepwalking, il ‘camminare profondo’: ‘Anni fa, chi voleva camminare ci chiedeva di organizzare viaggi nel Pollino o nella wilderness. Oggi si cercano motivazioni, si chiede una valore aggiunto. Si cammina per meditare, per fare esperienza spirituale. Camminare deve avere un signficato. E’ la frontiera del camminare contemporaneo in Occidente. O, almeno, in Italia. Oggi i camminatori-clienti della Boscaglia sembrano preferire l’asfalto che si pesta spesso lungo il percorso della Via Francigena (penso ai tratti nella pianura Padana o in Versilia) alle foreste del Casentino o dell’Abruzzo. E, ripeto, comincio a pensare che non sia casuale la presidenza del Cai affidata a un antropologo-filosofo.

Da visitare anche il sito www.vivereconlentezza.it. Con una notazione: la presentazione del libro di Bruno Contigiani, animatore del sito, uno che è stato capoufficio stampa di Ibm e di Telecom, non è esattamente una tournée mozzafiato, ma sei presentazioni, da Cortina a Milano, da Torino a Portogruaro, in meno di un mese non sono un esempio di particolare lentezza.

Arrivato?

Non riesco ad immaginare la forza di volontà (o di narcisismo?) di chi, al termine di una faticosa giornata a piedi, si toglie le scarpe, controlla lo stato delle vesciche e si mette a scrivere il diario del suo cammino.

Il mio arrivo è più semplice. Da nostalgia antica e facile. Ancor oggi, durante la messa di mezzanotte, a Natale, la comunità dell’Isolotto, celebre nel 1968 per la disobbedienza di un prete ribelle come Enzo Mazzi, continua a intonarla come un mantra. E’ una canzone che amo. E’ la voce di Giorgio Gaber che sfrigola dal long-playing in vinile: ‘C’è solo la strada su cui puoi contare…..’.  Lo ascolto, assieme a Clandestino di Manu Chao, mentre finisco queste pagine (finisco? Come se il camminare avesse fine). Sono pagine scritte con casualità. Non sapevo che cosa avrei scritto prima di cominciare. Ho avuto la vanità e l’imprudenza di rispondere alla sollecitazione imprevista di un frate francescano. Ho provato anche a camminare nel breve pellegrinaggio che loro fanno, nel gelo di una notte di gennaio, verso questo splendido monastero di san Romedio. Poi, qualche giorno fa, ho semplicemente cominciato a scrivere. Quando cammino, è così che mi piace andare avanti. Un po’ a caso. Quasi senza cartografia. Sicuramente senza bussola o Gps che non saprei usare. Lascio la macchina ai margini di un sentiero e provo a percorrerlo senza sapere bene dove conduce. Mi do delle regole, ma, spesso non le rispetto. Mi imbarazzo di fronte ai bivi: vorrei andare ovunque. A casa mi consolo con Giorgio Gaber e con un manifesto che da anni si trova in un angolo dell’ingresso. Raffigura il fantasma esile di Don Chiosciotte e del fido Sancho Panza. Ci sono impresse la parole sacrosante di Antonio Machado: ‘Caminante no hay camino, se hace camino al andar’.

Per questo devo un ringraziamento a frate Fabio. Perché mi ha costretto a vagare a caso fra libri (letti e non letti, spesso parole trovate in altri libri e copiate senza pudore), ma soprattutto perché mi ha fatto rileggere un libro che avevo dimenticato. Non si dovrebbero dimenticare le pagine preziose. Dopo tante parole sul camminare, mi sono convinto che il libro italiano che meglio di altri, senza ideologie e filosofie, ha saputo raccontare l’epica e la grandiosità, la bellezza e la fatica immane dell’andare a piedi lo ha scritto Primo Levi. E’ ‘Se non ora, quando’.

Andrea Semplici